«Mi picchiava perché mi ribellavo, perché dicevo le cose che pensavo, e lui per farmi stare zitta mi aggrediva»

ANPI Scuola - Brescia
6 min readMar 8, 2020

Non è una donna del 1945 a parlare, non è rinchiusa in un carcere, né ad aggredirla e picchiarla è un fascista o un nazista. Quelle venivano picchiate per farle parlare, queste lo sono per farle tacere e obbedire. In comune la violenza, la sopraffazione, ma anche, e forte, il desiderio di libertà.

Lei è Giuseppina Pesce, colei che, nel 2012, ha rivelato al mondo degli ignari “l’omicidio d’onore”. E l’aguzzino è suo marito, il suo carcere la casa, o forse, meglio, “la famiglia”, la ’Ndrangheta.

Si conoscono che lei ha appena 14 anni, lui 22. Poco dopo nasce Angela, la prima figlia, e per “riparare” agli occhi del paese fanno la “fuitina”. Dopo, la delusione. E tante botte per silenziarla ogni qualvolta si propone come organismo senziente. Vorrebbe lasciarlo, il marito, ma non si può. Così, Giuseppina conosce un altro uomo che la fa sentire ancora ragazza, le fa tornare il desiderio di vivere e si concede una nuova storia. Ma sa che il clan non la perdonerà. A salvarla è l’arresto, con l’accusa di essere la “postina del clan”.

Certo, perché lei è una Pesce, una delle più potenti cosche della ’ndrangheta della piana di Rosarno; che domina su una miriade di ’ndrine, i cui interessi vanno da Reggio Calabria a Milano, che gestisce buona parte dei traffici della piana di Gioia Tauro: dal porto alla droga, dalle estorsioni al controllo dei mercati agricoli. E non si ferma lì, arriva nel Nord Italia, in Europa.

Così, il 28 novembre 2010, lei nata e pasciuta di “pane e ’ndrangheta”, cui sono noti affari e segreti della famiglia, a 34 anni, due figlie di 16 e 6 anni e un figlio di 9, viene arrestata. Suo marito è già in carcere per associazione mafiosa. Anche suo padre e lo zio sono in carcere. E sua madre. E sua sorella. E adesso anche lei… quale futuro per i suoi figli ? E lei? Cosa può fare?

Tenta due volte il suicidio per il distacco dai bambini e, dopo alcuni mesi, i suoi pensieri trovano risposta nella fiducia nella PM antimafia Cerreti, cui racconta di sedici anni di botte e segregazioni e da cui ottiene protezione per lei e per i suoi figli. Giusy inizia così, coraggiosamente, una nuova vita, pur sapendo che pende su di lei una condanna a morte. Lei lo sa bene.

Ma non è una strada facile: Angela, la figlia sedicenne, non l’approva, non riesce a condividere le ragioni della madre, troppo forte in lei adolescente lo sradicamento. Così la famiglia paterna sfrutta l’essere contro della ragazza come cardine per dissuadere la madre dal suo progetto.

E Giusy cede: senza la figlia dalla sua parte, non riesce ad andare avanti. Per riabilitarla agli occhi di tutti e velare il disonore, la “famiglia” le fa firmare una lettera in cui dichiara di essere stata costretta dai magistrati a collaborare e di aver detto solo falsità. Però, Giusy non vuole rientrare in Calabria. Ha paura che la uccidano o la facciano sparire, come è avvenuto e avviene per tante donne della ’Ndrangheta. Per qualche tempo resta ancora con le due figlie in località protetta, mentre il maschietto viene affidato al nonno.

Angela è ancora insofferente; chiede alla madre di accompagnarla in macchina a Lucca, da un’amica. Giusy cede, ma al rientro, viene fermata e accusata di evasione; con lei c’è l’uomo con cui condivide questa sua nuova vita.

Adesso il suo tradimento, anche coniugale, è palese e la sua sorte è definitivamente segnata. “Chi tradisce e chi disonora la famiglia deve essere punito con la vita. È una legge” dirà alla Cerreti. Il marito furioso, violato nel suo “onore” di uomo e di marito, oltre che di ’ndranghetista, la minaccia. Ma la reazione non è la paura: Giuseppina ora è consapevole che non può e non deve tornare indietro. Riprende la collaborazione. E si rifanno pressanti i ricatti e le minacce ad Angela e arrivano anche le percosse del nonno paterno al nipote.

Anche in questo caso, l’effetto è inaspettato: Angela capisce e si schiera con la madre. Nessuno ferma più Giusy. Così lei rompe il mondo in cui è nata e cresciuta, dove il padre e lo zio erano le autorità indiscusse, e al processo “All Inside 2, di fronte al Tribunale di Palmi, dice : “Io faccio parte di questa famiglia, io vivo… vivevo in questa famiglia, quindi so la…cioè respiravo queste cose, quest’aria di superiorità, di potere, di privilegio”.

E in quell’imperfetto sta la sua scelta di assumersi le proprie responsabilità, di denunciare, di cambiare parte, di stare dalla parte giusta. Di rompere quei legami familiari che le vietavano il diritto di vivere. Di essere libera.

Al tempo del processo del 2012, in aula, si assiste a questa scena: i maschi Pesce urlano contro la PM: “Vogliamo Di Palma, ma quella no”. È una questione di rispetto. Loro, i maschi Pesce, avrebbero potuto portare rispetto al “nemico”, in quanto meritevole per abilità e capacità, ma solo se maschio. Se femmina, NO. In ogni caso.

E la sorte, anche in questo infausta per loro, si prende una rivincita. Femmine sono tutte le componenti del collegio giudicante: il presidente Concettina Epifanio, i giudici a latere Maria Laura Ciollaro e Antonella Crea.

Anche il sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi, è femmina e si costituisce parte civile.

Dall’introduzione de “Il codice del disonore” (Editore: Einaudi 2019) di Dina Lauricella, giornalista che da anni segue il fenomeno dell’omicidio d’onore, riporto:

“La ‘femminitudine’ è sempre un esercizio complicato, e in una famiglia di ’Ndrangheta lo è ancora di più. A queste donne spetta un compito arduo, pieno di responsabilità, di privazioni, di silenzi, di morti. Non solo la morte del marito, del padre o del figlio, sempre al fronte, in fuga dallo Stato, a caccia di rivali, ma anche la loro stessa morte.

Questa non si consuma mai sul campo di battaglia, ma dentro casa, fra i propri ‘affetti’, in silenzio e senza troppo rammarico”.

Essere donna in una famiglia di ’Ndrangheta vuol dire ancora oggi obbedire ciecamente a regole arcaiche, finalizzate a far rimanere integro “l’onore” e la rispettabilità della “famiglia”. Il codice della ’Ndrangheta non perdona: uccide mogli, sorelle, figlie che osano sfidarla. In nome di un codice barbaro che sopravvive. Se sbagli, ti fanno fuori e fanno sparire il tuo cadavere.

E l’omertà e l’indifferenza la fanno da padrone.

Questo il grande merito di Giuseppina Pesce: oltre a far venire a galla l’enorme giro di affari illegali delle cosche, ha denunciato questa strage di donne ribelli, anche solo per amore, per il diritto a scegliere la propria vita. Giuseppina ha seminato speranza.

Negli ultimi 10 anni, in Calabria, la ribellione alle cosche si è fatta più forte e l’elemento che più colpisce è che sia di genere femminile. Sono tante le donne che si rivolgono alla giustizia, che rompono i lacci della cultura di cui sono nutrite.

Che riconoscono valore allo Stato a cui affidano la loro vita e quella dei loro figli.

Onore a loro.

E buon 8 marzo a TUTTI.

--

--